IL TRIBUNALE Riunito in Camera di Consiglio nella causa iscritta al N.R.G.. 22722/2004; Letti gli atti, osserva In fatto Con citazione regolamente notificata in data 12 luglio 2004 Cantore Gerardo Maria e Boccaccino Giuliana convenivano in giudizio il San Paolo Banco di Napoli S.p.A. - in persona del legale rappresentante pro tempore - chiedendo in via principale che l'adito tribunale dichiarasse la nullita' del contratto stipulato verbalmente in data 19 febbraio 2002 e del correlato ordine di acquisto recante la medesima data del 19 febbraio 2002, con la condanna del convenuto Istituto alla integrale restituzione della somma di Euro 20.000,00 oltre interessi, versata da essi attori a titolo di corrispettivo per l'acquisto di obbligazioni Giacomelli. A sostegno della invocata nullita' gli istanti deducevano - oltre alla violazione dell'obbligo: a) di fornire informazioni sull'investimento proposto (art. 21, comma 1, lett. a) del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 - c.d. t.u.i.f. -); b) di acquisire informazioni dai clienti prima di proporre l'investimento (art. 21, lett. b) del t.u.i.f. e dell'art. 28, comma 1, lett. a) del regolamento Consob del 1° luglio 1998, n. 11522); c) di consegnare il documento sui rischi generali (art. 28, comma 1, lett. b) del citato regolamento Consob) - la mancanza di forma ex art. 23 t.u.i.f. e 30 reg. Consob, ed, in ogni caso, la nullita' del negozio ai sensi dell'art. 1418 c.c. Il Sanpaolo Banco di' Napoli si costituiva ed invocava il rigetto delle avverse domande eccependone l'infondatezza in fatto e in diritto. Alla udienza di prima comparizione, l'adito giudice si riservava e, con ordinanza depositata il 17 novembre 2004, disponeva - in applicazione del d.lgs. n. 5 del 17 gennaio 2003 - il mutamento del rito e contestualmente ordinava la cancellazione della causa dal ruolo (con la conseguente decorrenza dalla comunicazione della medesima dei termini di cui all'art. 6, d.lgs. citato). Con istanza depositata il 24 maggio 2005 gli attori chiedevano l'immediata fissazione d'udienza ai sensi degli artt. 8 e ss. del d.lgs. n. 5/2003. Con decreto del 21 luglio 2005 il giudice relatore designato fissava l'udienza collegiale ai sensi dell'art. 12 del decreto legislativo citato indicando alle parti, in particolare, la questione relativa alla costituzionalita' dello stesso decreto legislativo n. 5/2003 secondo le cui norme era stato instaurato il processo. Alla fissata udienza del 21 settembre 2005, sulla dedotta questione di costituzionatita', il legale degli attori si rimetteva mentre quello del convenuto aderiva alla prospettata incostituzionalita'. Il tribunale si riservava. I n d i r i t t o La questione di costituzionalita' va affrontata in via preliminare rispetto alle altre questioni. L'art. 12 della legge di delega n. 366/2001 prevede che: «1. - Il Governo e' inoltre delegato ad emanare norme che, senza modifiche della competenza per territorio e per materia, siano dirette ad assicurare una piu' rapida ed efficace definizione di procedimenti nelle seguenti materie: a) diritto societario, comprese le controversie relative al trasferimento delle partecipazioni sociali ed ai patti parasociali; b) materie disciplinate dal testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, e dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni. 2. - Per il perseguimento delle finalita' e nelle materie di cui al comma 1, il Governo e' delegato a dettare regole processuali, che in particolare possano prevedere: a) la concentrazione del procedimento e la riduzione dei termini processuali; b) l'attribuzione di tutte le controversie nelle materie di cui al comma 1 al tribunale in composizione collegiale, salvo ipotesi eccezionali di giudizio monocratico in considerazione della natura degli interessi coinvolti; c) la mera facoltativita' della successiva instaurazione della causa di merito dopo l'emanazione di un provvedimento emesso all'esito di un procedimento sommario cautelare in relazione alle controversie nelle materie di cui al comma 1, con la conseguente definitivita' degli effetti prodotti da detti provvedimenti, ancorche' gli stessi non acquistino efficacia di giudicato in altri eventuali giudizi promossi per finalita' diverse; d) un giudizio sommario non cautelare, improntato a particolare celerita' ma con il rispetto del principio del contraddittorio, che conduca alla emanazione di un provvedimento esecutivo anche se privo di efficacia di giudicato; e) la possibilita' per il giudice di operare un tentativo preliminare di conciliazione, suggerendone espressamente gli elementi essenziali, assegnando eventualmente un termine per la modificazione o la rinnovazione di atti negoziali su cui verte la causa e, in caso di mancata conciliazione, tenendo successivamente conto dell'atteggiamento al riguardo assunto dalle parti ai fini della decisione sulle spese di lite; f) uno o piu' procedimenti camerali, anche mediante la modifica degli artt. 737 e seguenti del codice di procedura civile ed in estensione delle ipotesi attualmente previste che, senza compromettere la rapidita' di tali procedimenti, assicurino il rispetto dei principi del giusto processo; g) forme di comunicazione periodica dei tempi medi di durata dei diversi tipi di procedimento di cui alle lettere precedenti trattati dai tribunali, dalle Corti di appello e dalla Corte di cassazione». In relazione alla struttura che il legislatore delegato e' stato chiamato a delineare per il processo ordinario - e con esclusione del riferimento ai principi dettati in tema di giudizio cautelare che concernono profili non rilevanti in questo giudizio - dal disposto dell'art. 12 della legge n. 366 del 2001 sono estrapolabili i seguenti principi: 1) divieto di modifica della competenza territoriale e per materia; 2) necessita' di assicurare una piu' rapida ed efficace definizione di procedimenti; 3) possibilita' di dettare regole processuali, che in particolare possano prevedere: a) la concentrazione del procedimento e la riduzione, dei termini processuali; b) l'attribuzione di tutte le controversie nelle materie di cui al comma 1 al tribunale in composizione collegiale, salvo ipotesi eccezionali di giudizio monocratico in considerazione della natura degli interessi coinvolti; c) la possibilita' per il giudice di operare un tentativo preliminare di conciliazione, suggerendone espressamente gli elementi essenziali assegnando eventualmente un termine per la modificazione o la rinnovazione di atti negoziali su cui verte la causa e, in caso di mancata conciliazione, tenendo successivamente conto dell'atteggiamento al riguardo assunto dalle parti ai fini della decisione sulle spese di lite. Nella legge n. 366/2001 il legislatore, dunque, si e' limitato ad indicare le materie nelle quali il governo poteva intervenire, l'obiettivo di rendere piu' rapida ed efficace la definizione dei procedimenti, il divieto di modificare la competenza per territorio e materia, la tendenziale collegialita' del procedimento, la possibilita' di valutare l'atteggiamento delle parti in sede di tentativo di conciliazione e la possibilita' di dettare regole che favorissero la riduzione dei termini e la concentrazione del procedimento. L'assoluta genericita' dell'indicazione relativa alle modalita' da seguire, per la realizzazione dell'obiettivo dichiarato di voler assicurare una piu' rapida ed efficace definizione di procedimenti nelle materie individuate, ha di fatto consentito al legislatore delegato di creare un nuovo modello processuale che esula completamente dallo schema del procedimento ordinario disciplinato dal codice di procedura civile. A fronte della situazione di fatto venutasi a creare che vede da un lato una legge delega che nulla o quasi dice in ordine ai principi direttivi che avrebbero dovuto ispirare il legislatore delegato e dall'altro un decreto legislativo che crea un nuovo modello processuale, sovvertendo, nelle materie indicate dalla legge di delega, i tradizionali canoni che governano il processo civile, a questo collegio si pongono due opzioni interpretative che in ogni caso conducono ad un dubbio di costituzionalita' in relazione all'art. 76 della Costituzione. La prima opzione interpretativa, sia in ordine logico sia di scelta, che questo collegio reputa piu' consona allo spirito del complesso normativo costituito dalla legge delega e dal decreto legislativo, e' quella di ritenere che il legislatore delegante non abbia indicato con sufficiente determinazione i principi e criteri normativi che avrebbero dovuto guidare l'operato del legislatore delegato e che quindi l'art. 12 della legge n. 366/2001 non soddisfi il precetto dell'art. 76 della Costituzione che consente la delega dell'esercizio della funzione legislativa al Governo solo previa determinazione di principi e criteri direttivi. Non ignora questo tribunale come, per giurisprudenza costante della Corte costituzionale, i principi direttivi che l'art. 76 Cost. richiede alla legge delega non escludono la possibilita' di lasciare al legislatore delegato un ampio margine di discrezionalita' nell'individuazione delle modalita' attraverso le quali realizzare gli obiettivi prefissati dalla legge delega. Il potere attribuito al legislatore delegato, pero', per quanto ampio, non puo' mai travalicare il limite della discrezionalita' nel senso che, come la Corte costituzionale insegna, sin da risalenti pronunzie, «la legge delegante va considerata con riferimento all'art. 76 della Costituzione, per accertare se sia stato rispettato il precetto che ne legittima il processo formativo. L'art. 76 indica i limiti entro cui puo' essere conferito al Governo l'esercizio della funzione legislativa. Per quanto la legge delegante sia a carattere normativo generale, ma sempre vincolante per l'organo delegato, essa si pone in funzione di limite per lo sviluppo dell'ulteriore attivita' legislativa del Governo. I limiti dei principi e criteri direttivi, del tempo entro il quale puo' essere emanata la legge delegata, degli oggetti degli interventi da un lato servono a circoscrivere il campo della delegazione si' da evitare che la delega venga esercitata in modo divergente dalle finalita' che la determinarono; dall'altro devono consentire al potere delegato la possibilita' di valutare le particolari situazioni giuridiche della legislazione precedente, che nella legge delegata deve trovare una nuova regolamentazione. Se la legge delegante non contiene, anche in parte, i cennati requisiti, sorge il contrasto tra norma dell'art. 76 e norma delegante, denunciabile al sindacato della Corte costituzionale, s'intende dopo l'emanazione della legge delegata» (cosi' Corte cost. 26 gennaio 1957, n. 3). In particolare, per quel che rileva in questa sede, nulla ha detto la legge delega in ordine allo schema processuale da adottare, lasciato non alla scelta discrezionale ma all'arbitrio del legislatore delegato, come emerge chiaramente dal contenuto del decreto legislativo che ha creato un nuovo modello di processo al di fuori delle regole dettate dal codice di procedura civile. Il «rito societario» costituisce infatti, come indicato dalla stessa relazione della commissione ministeriale, un vero e proprio nuovo modello processuale, che si distacca volutamente sia dal modello processuale del 1942, sia da quello del processo del lavoro del 1973 ed infine anche da quello delineatosi con la riforma del 1990. In particolare, si tratta di un rito di cognizione nel quale la prima fase del processo avviene senza l'intervento del giudice: nell'atto di citazione ai sensi dell'art. 2 non e' piu' indicata l'udienza avanti al giudice ed il termine che l'attore fissa al convenuto per la comunicazione della comparsa di risposta e' stabilito solo nel minimo, cosi' nella comparsa di risposta ai sensi dell'art. 4 il convenuto puo' a sua volta fissare all'attore per eventuale replica un termine stabilito ancora una volta solo nel minimo, e con lo stesso meccanismo l'art. 6 prevede la possibilita' di una replica da parte dell'attore e l'art. 7 la possibilita' di una controreplica da parte del convenuto e poi ancora ulteriori repliche e controrepliche. Solo a seguito dell'istanza di fissazione di udienza di cui all'art. 8 interviene il giudice, in un momento pero' in cui sia il thema decidendum che il thema probandum si sono gia' definitivamente formati, quindi totalmente al di fuori del controllo del giudice, il quale tra l'altro solo in un secondo momento, e in teoria anche dopo moltissimo tempo dalla notifica dell'atto introduttivo, ha la possibilita' concreta di verificare l'eventuale invalidita' dell'atto di citazione e/o della notifica, la necessita' di integrare il contraddittorio, e tutti questi aspetti preliminari. Inoltre, a differenza di quel che accade nel rito del lavoro e in quello delineato dalla riforma del '90, ove secondo la dominante interpretazione giurisprudenziale il giudice, d'ufficio, proprio a tutela della «durata ragionevole del processo», verifica le eventuali preclusioni di merito e/o istruttorie, il d.lgs. n. 5/2003 condiziona tale verifica all'eccezione di parte (artt. 10, comma 2 e 13, comma 4). Ed ancora, la stessa istanza di fissazione di udienza, con gli effetti preclusivi rilevantissimi stabiliti dall'art. 1, e' uno strumento lasciato nella totale disponibilita' delle parti o anche di una sola di esse, che puo' utilizzarlo a suo piacimento, nel momento ritenuto piu' opportuno. Infine, va segnalato l'art. 13 in tema di contumacia o costituzione tardiva del convenuto, che al comma 2 introduce l'innovativo principio (di cui nella delega non v'e' traccia), per cui nel caso in cui il convenuto non notifichi la comparsa di risposta nel termine stabilito o anche solo si costituisca tardivamente «i fatti affermati dall'attore ... si intendono non contestati e il tribunale decide sulla domanda in base alla concludenza di questa». Tutte queste peculiarita' confermano con chiarezza che il legislatore delegato, in forza di una delega assolutamente carente sotto il profilo dell'indicazione di criteri direttivi, ha potuto creare una disciplina interamente nuova per il processo societario di cognizione ordinaria, anticipando quel rito ordinario prefigurato dal testo redatto dalla commissione ministeriale per la riforma del processo civile (il c.d. «progetto Vaccarella). Questo tribunale reputa, appunto, che cio' sia avvenuto per effetto di una legge di delega priva di reali principi di riferimento e limitatasi ad indicare un unico vero obiettivo, quello di «assicurare una piu' rapida ed efficace definizione di procedimenti» requisito tra l'altro nemmeno particolarmente qualificante in quanto comune a qualsivoglia progetto di riforma del processo civile; ne' lo stesso viene qualificato dal riferimento alla finalita' di «concentrazione del procedimento e riduzione dei termini processuali» trattandosi appunto di indicazioni di massima con mera valenza teorica, che finiscono per identificarsi con lo stesso obiettivo dell'accelerazione processuale; cosi' come evidentemente non hanno alcun valore delimitativo ed individuante gli altri criteri-guida del divieto di modifica della competenza territoriale e per materia, della preferenza per la collegialita' e della valorizzazione del ruolo del tentativo di conciliazione. Di conseguenza, ad avviso del Collegio, in quanto non manifestamente infondata sotto il profilo della violazione dell'art. 76 Cost. per inosservanza del «contenuto minimo» delle leggi delega, va sollevata la questione di costituzionalita' dell'art. 12 della legge n. 336/2001 nella parte relativa al procedimento ordinario di primo grado e, per derivazione, degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo n. 5 del 2003. La questione e' altresi' rilevante in quanto vertendosi in tema di responsabilita' dell'intermediatore finanziario il giudizio e' stato instaurata nelle forme previste dal d.lgs. n. 5 del 2003 emanato in forza della predetta legge di delega, e dalla pronunzia della Corte costituzionale dipende l'applicabilita' dell'intera nuova disciplina processuale alla controversia sottoposta al vaglio di questo tribunale. In via subordinata e per l'ipotesi in cui la Corte dovesse ritenere costituzionalmente legittimo l'art. 12 della legge n. 366/2001, questo collegio ritiene che non sia manifestamente infondato il dubbio di costituzionalita' degli artt. 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 17 del decreto legislativo n. 5 del 2003 per contrasto con l'art. 76 della Costituzione in quanto emanati eccedendo dai principi e criteri direttivi dettati dalla legge n. 366 del 2001. Per evitare il sospetto di incostituzionalita' per indeterminatezza e genericita', si dovrebbe invero compiere lo sforzo interpretativo di leggere la legge n. 366 del 2001 facendo riferimento alla disciplina del vigente processo di cognizione davanti al tribunale, come contenuta nel libro II, titolo I, c.p.c., il rito cioe' che sino al 31 dicembre 2003 e' stato applicato anche alle controversie societarie e che il legislatore delegante aveva come punto di riferimento all'atto della concessione della delega; sforzo interpretativo gia' compiuto da altri giudici ordinari (cfr. tribunale Brescia 18 ottobre 2004, in atti, che ha rimesso la questione alla Corte costituzionale; e vedi anche varie ordinanze della seconda sezione del tribunale partenopeo). La disciplina del processo di cognizione davanti al tribunale contenuta nel codice di procedura civile prevede che il processo si svolga attraverso la successione di piu' udienze fisse ed obbligatorie, in particolare quella di prima comparizione (art. 180 c.p.c.), quindi la prima udienza di trattazione (art. 183 c.p.c.), cui puo' seguire un'udienza per la discussione e l'ammissione delle prove (art. 184 c.p.c.) ed eventualmente un'ulteriore udienza di precisazione delle conclusioni (art. 189 c.p.c.). Se si volesse individuare una determinatezza dei criteri direttivi nella legge di delega dovrebbe necessariamente ritenersi che il legislatore delegante indicando il principio di «concentrazione del procedimento» abbia avuto come elemento di riferimento proprio questa scansione prevista nel processo ordinario vigente, il quale, in particolare, prevede che tra il giorno della notificazione della citazione e quello dell'udienza di comparizione debbano intercorrere termini liberi non minori di sessanta giorni, fissa il termine meramente ordinatorio di quindici giorni per la successione fra le varie udienze (art. 81 delle norme di attuazione c.p.c.), stabilisce ai sensi dell'art. 183 c.p.c., quinto comma un termine massimo di trenta giorni per il deposito di memorie e di altri trenta per le repliche, non stabilisce nessun termine per il deposito delle memorie istruttorie ex art. 184 c.p.c. primo comma seconda parte e prevede il termine di sessanta giorni per il deposito delle comparse conclusionalli e di venti per eventuali repliche. Soltanto con il riferimento a tali termini potrebbe riempirsi di contenuto la generica indicazione del legislatore delegante del principio di «riduzione dei termini processuali». Solo questa lettura, estremamente riduttiva e per questo proposta in via subordinata, dei principi fissati dal legislatore delegante consentirebbe di evitare il su citato dubbio di costituzionalita' dell'art. 12 della legge n. 366 del 2001. E', pero', evidente che in questo caso l'articolato contenuto negli artt. da 2 a 17 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, con cui si e' inteso dare attuazione alla delega, contrasterebbe con i principi fissati dal legislatore delegante per «eccesso di delega» alla luce della caratteristiche del nuovo rito societario come gia' sopra sintetizzate. L'operazione effettuata dal decreto legislativo non e' stata, infatti, quella di prevedere un rito concentrato rispetto all'attuale rito ordinario disciplinato dagli artt. 163 ss. c.p.c., bensi' quella, lo si ribadisce, di introdurre nell'ordinamento un modello processuale del tutto diverso, anticipatorio di quello prefigurato nel «progetto Vaccarella», nel quale, in particolare «scompaiono» le prime due udienze dell'attuale processo ordinario, sostituite da una fase preliminare di definizione del thema decidendum sottratta all'intervento giudiziale e rimessa solo alla disponibilita' delle parti, legittimate a chiudere tale fase notificandosi rispettivamente l'istanza di fissazione d'udienza e uniche abilitate a rilevare l'eventuale inammissibilita' delle altrui istanze, istruttorie e di merito (artt. da 2 ad 10). Appare impossibile non vedere in questa «degiurisdizionalizzazione» della fase introduttiva, con un intervento del giudice essenzialmente rivolto solo all'istruzione e alla decisione della causa, una vera e propria «rivoluzione» di una struttura processuale ormai consolidata, e non una semplice «accelerazione» e «concentrazione processuale». Vi e' poi l'assoluta novita' della ficta confessio di cui al citato art. 13, d.lgs. n. 5/2003, norma che e' vero che accelera il processo evitando l'istruttoria in caso di costituzione tardiva del convenuto, ma e' nondimeno vero che oltre a tale effetti ne realizza altri, non indicati nemmeno implicitamente nella legge delega: si introduce infatti una novita' assoluta nell'ordinamento processuale italiano, sinora restio a dare significativita' alla contumacia (tranne l'ipotesi che sara' subito esaminata), e si introduce sostanzialmente una nuova prova legale, la non contestazione del convenuto costituitosi in ritardo (che e' cosa ben diversa rispetto alla non contestazione del soggetto che, costituendosi, non impugna alcuni fatti dedotti ex adverso ovvero svolga difese incompatibili con la contestazione di alcuni fatti). Ebbene, la legge delega non contiene alcuna direttiva o indicazione sul punto e a maggior ragione non la contiene ove rapportata all'attuale assetto processuale, poiche' al silenzio della legge delega fa da contraltare la negazione da parte dell'ordinamento attuale di qualsivoglia valore alla contumacia (ad eccezione del disconoscimento tacito di cui a1l'art. 215 n. 1 c.p.c., che peraltro resta neutralizzato dalla successiva costituzione con disconoscimento, con un meccanismo ben diverso da quello dell'art. 13, d.lgs. n. 5/2003). Oltre agli eccessi di delega appena evidenziati, il nuovo rito societario prevede norme che, viceversa, sembrano porsi in contrasto con l'idea di accelerazione processuale propugnata dall'art. 12 della legge n. 366/2001. Ed infatti, si e' detto che il d.lgs. n. 5/2003 prevede una fase introduttiva priva di controllo giudiziale e al contempo articolata e complessa, che puo' svolgersi con un «ping-pong» di atti, repliche e controrepliche (artt. 2 a 7) che finisce col rendere sovrabbondante la fase introduttiva, sicuramente non meno dell'assetto attuale contraddistinto, nella peggiore delle ipotesi, dagli atti introduttivi, dalle due udienze ex artt. 180 e 183, dalle memorie ex art. 180 e 183 ult. comma c.p.c. Si e' altresi' detto che il nuovo rito esclude l'intervento officioso del giudice per rilevare le preclusioni e decadenze istruttorie e di merito (artt. 10 comma 2 e 13 comma 4) e prevede poi che il giudice verifichi la regolarita' della notifica dell'atto di citazione o l'eventuale assenza di litisconsorti necessari solo al momento in cui la causa gli sia presentata con la richiesta di fissazione d'udienza (art. 12, ultimi commi). Sul primo aspetto, si e' gia' implicitamente evidenziato come la fase introduttiva, per come delineata dal d.lgs. n. 5/2003, non pare idonea a snellire i tempi del processo; ne' vale obiettare che si tratta di una fase pregiudiziale, in quanto la causa non e' stata ancora sottoposta al giudice, dal momento che il giudizio, per regola generale, sorge con la notifica dell'atto di citazione, ossia con l'instaurazione del contraddittorio, mentre e' irrilevante l'«assenza» del giudice, alla luce della stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo secondo cui nel computo della durata complessiva di un processo civile deve essere ricompresa anche il periodo impiegato per lo scambio degli atti tra le parti precedente l'istanza di fissazione dell'udienza (CDEU, II sez., 29 luglio 2003, Price e Lowe contro Regno Unito, in Giur. it. 2004, 487). Quanto agli altri due punti, e' pacifico che l'intervento officioso del giudice sia ritenuto dalla giurisprudenza, sia di legittimita' che di merito, insito nel novella del '90, attesa la portata della riforma, volta a realizzare l'interesse di ordine pubblico (e quindi indisponibile per le parti) alla rapida definizione dei procedimenti. Ne deriva giocoforza che rimettere nuovamente alle parti la decisione di valutare l'ingresso nel processo di domande, eccezioni o istanze istruttorie tardive puo' incidere negativamente sui tempi del processo, destinato a durare piu' a lungo se le parti accettino il contraddittorio su simili domande, eccezioni, istanze tardive. Ugualmente e' pacifico che sia l'invalida notifica della citazione sia l'assenza di tutti i litisconsorti necessari costituiscono vizi che, se accertati solo in sede di udienza di discussione, all'esito della fase introduttiva «fuori» udienza comportano notevoli ritardi processuali, nella prima ipotesi addirittura con una naturale regressione del processo alla fase introduttiva, prima dell'inizio di quel «ping-pong» di notifiche di atti tra le parti che puo' durare anche molto tempo. Ed e' evidente che la soluzione prescelta dal legislatore delegato comporta effetti «deceleratori» rispetto alla situazione fisiologica del rito attualmente vigente, in cui il giudice immediatamente, alla prima udienza, e' tenuto a simili verifiche preliminari, eliminando subito il vizio senza eccessivi ritardi se non quelli legati ad una nuova udienza di comparizione coi termini per la regolarizzazione del contraddittorio. Quindi, per le menzionate disposizioni degli artt. 2-7, 10, comma 2, 13, comma 4 e 12 ultimi commi, sempre qualora di accolga la tesi subordinata della determinatezza della legge delega siccome riferita all'attuale assetto processuale, vi e' l'ulteriore sospetto di un vizio non solo di eccesso di delega, ma anche di contrasto con la legge delega. L'intera struttura del rito societario viene, quindi, ancora piu' messa in discussione. Sul punto della inosservanza della legge delega (sia in termini di eccesso che di contrasto), vi e' altresi' da precisare che la questione e' e resta aperta nonostante il rito societario sia stato ormai «esportato» prima nelle controversie in materia di proprieta' industriale (art. 134, comma 1, d.lgs. n. 30/2005) e poi addirittura in tutte le controversie, con l'introduzione dell'alternativita' col rito vigente stabilita dall'art. 70-ter disp. att. c.p.c. quale introdotto dalla recentissima legge di conversione al «D.L. competitivita' (legge 14 marzo 2005, n. 80). Invero, al di la' del fatto che l'art. 70-ter disp. att. c.p.c., secondo la previsione dell'art. 3-quater della legge di conversione, entrera' in vigore solo il 12 settembre 2005, non rileva in questa sede che il legislatore ordinario, ossia il Parlamento, con questi interventi abbia in pratica legittimato» le scelte del d.lgs. n. 5/2003 rispetto alla legge delega n. 366/2001, perche' tale legittimazione e' stata solo in fatto, non essendosi avuta un'iniziativa volta a trasformare in legge «formale» la legge «materiale» emessa in violazione della legge delega (come ad esempio e' accaduto con l'art. 7, legge n. 205/2000, che ha sostituito gli artt. 33 e 34, d.lgs. n. 80/1998, viziati da eccesso di delega), ma solo una mera applicazione del rito societario, nella sua attuale configurazione, ad altre controversie, senza alcuna ratifica formale di detto rito societario in relazione alle controversie societarie, che sono appunto quelle oggetto del d.lgs. n. 5/2003. Anche la questione di costituzionalita' proposta in via subordinata e' rilevante ai fini del presente giudizio per le stesse ragioni indicate per la questione proposta in via principale. Oltre al sospetto di incostituzionalita' dell'intero rito di cognizione, coi conseguenti dubbi di applicabilita' nel suo complesso della nuova disciplina, va poi ricordata la particolare rilevanza pratica della questione di costituzionalita' rispetto all'art. 13, d.lgs. n. 5/2003, invocato nei suoi effetti dagli attori a fronte della tardiva costituzione del MPS. Tanto premesso in fatto e diritto, va disposta la sospensione del presente giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la decisone sulla questione pregiudiziale di legittimita' costituzionale, siccome rilevante e non manifestamente infondata. Alla cancelleria vanno affidati gli adempimenti di competenza, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.